Greta

venerdì 29 luglio 2011

Le marachelle

E' verde come vetro levigato dal mare, il vestito che indosso stasera per cenare con Umberto. Ho messo la panciera, perché le scorribande nel frigo degli ultimi giorni mi hanno gonfiata un po'. E comunque, pensando di uscire per scaricarlo, non vale la pena essere troppo sexy.

Come dice quel mio amico – magari per rendergli la notizia un sollievo, sulla pizza mi faccio mettere un bel po' di aglio fresco.
Ricordo mentre tiro su la cerniera sul fianco e mi metto un fiocco nei capelli, come aveva spezzato la noja delle prime giornate buje di novembre – il sole dietro le montagne, l'umidità nelle dita sulla tastiera e, all'improvviso, Umberto in ufficio. Per le fotocopie.
Stampava girava le pagine fotocopiava raccoglieva i fogli. Stampava, girava pagine, raccoglieva  fogli. Avanti così, che la sua si era rotta e la mia era nuova. Per giorni. Per ore e ore in diversi giorni. All'inizio non ci facevo molto caso. Stavo appesa alla cornetta, su una segreteria telefonica ministeriale “i nostri uffici sono aperti dal lunedì al venerdì dalle ore 8,30 alle ore 12,30”, quando ho iniziato a passeggiare con gli occhi sulla schiena di Umberto - risalendo spalle – dritte – affusolate – larghe – Lui stampava, raccoglieva i fogli, girava le pagine. Man mano che lo osservavo la voce nella cornetta si scioglieva in parole spappolate come albicocche troppo mature.
Percorrevo la sua schiena, infilandomi in ogni righina della sua camicia bianca e azzurra. Nelle fessure fra asole e bottoni, fra cintura e pantaloni.
Finita la telefonata, volevo di più.

Come ogni brava segretaria, giovedì andai in ufficio. Senza mutande.
E mentre Umberto girava e rigirava le sue pagine, gli passai accanto. Per caso la cartellina di pratiche e protocolli che avevo in mano mi sfuggì e io mi piegai vicino a lui per raccogliere le carte.
Non dissi niente. Raccoglievo i fogli sparsi senza fretta - certa che mi stesse guardando sotto la gonna.
Il giorno dopo, nel mio ufficio a fotocopiare, Umberto mi guardava.
Io facevo finta di niente, mi tenevo indaffarata come se la priorità della giornata non fosse indurlo a rompere la scollatura bassa che avevo indosso.
Lo teneva stretto alle mie voglie, oltre la mia indifferenza apparente.

Scrivendo mi passavo una mano lenta sul collo, mi attorcigliavo un riccio sulle spalle, mi lisciavo la pelle sopra il seno, spostando l'orlo della mia maglia sempre un po' più in giù. Mostrando ancora un po' di pelle. Sempre di più. Fino a rivelare l'aureola di un capezzolo, vivace mentre timbravo protocolli e li archiviavo in cartelline colorate. Bagnata come non mi succedeva da un pezzo, avevo solo voglia di scopare.
Prima di timbrare il cartellino andai in bagno a masturbarmi. Venni subito. Mi sciacquai le mani e andai a prendere l'autobus.

 “Tu mi turbi” - arrivò il messaggio di Umberto sul cellulare mentre guardavo Santoro sul divano ma più del dibattito pregustavo carezze solitarie sotto le lenzuola tiepide.
“Anche tu” - risposi subito.
“Dove sei?”
“A casa”
“Posso venire?”
Gli mandai l'indirizzo, sfilato il pigiama misi una sottoveste nera, con sotto niente, stivali coi tacchi e giacca di pelle. Gli andavo incontro all'inizio della strada.
Sentivo sul marciapiede la fredda aria della notte di novembre soffiarmi sotto la sottoveste ghiacciarmi le ginocchia e le cosce, stuzzicare il pelo sull'inguine – Caldo, solo il pensiero di una pelle di uomo presto addosso.

Mezza nuda sul marciapiede dove ogni mattina salutavo massaje compite col carrellino della spesa giravo su me stessa con piccoli passetti, tacchettando sul porfido, nella luce di un lampione che mi faceva sentire sporca e intrigante.
Non vedevo l'ora che arrivasse.
Seguimi” gli dissi precedendolo ancheggiando nei pochi metri che portavano al mio portone.
Una volta dentro il portone di legno mi afferrò il sedere, incominciò a palparmi dappertutto, mi sollevò la sottoveste, spostandomi a strattoni la giacca dalle spalle, tirandomi fuori dal pizzo nero i seni e i capezzoli infreddoliti - me li succhiava scaldava stringeva, tirandomeli si portava via il mio respiro e il ricordo del mondo – voluttuosa e ansimante mi annodava i capelli fra le mani tirando quel tanto da farmi sentire preda che voleva solo essere presa.

Una mano fra le cosce calcando le dita fra le mie grandi labbra – così bagnate - mi sbatté contro il muro vicino all'ascensore mentre mi sforzavo di ricordarmi di non urlare per non svegliare i vicini, per non farmi sentire, imponendomi di ricordarmichenonpotevochenon dovevoperché io abitavo lì e dovevocontinuareaessereunarispettabilesignora con laurea e lavoro statale. Ansimando interrompevo i pensieri sbattendo la testa sulla parete fredda mentre le mani grosse si spingevano sempre più dentro di me, la sua patta dei pantaloni si apriva e finalmente il suo cazzo mi prendeva dentro.

Mi sbatté lì, contro il muro a fianco dell'ascensore, sul pianerottolo all'ingresso, dove non sapevo neanche se ci fossero le telecamere – e poi coll'ascensore salimmo al terzo piano, di corsa nel mio appartamento e senza cerimonie senza parole senza vestiti rotolammo sul divano sul tappeto sul letto contro il frigo la lavastoviglie il comò della zia.

Mi ha fatto godere – dozzine di volte – una, due, tre sere alla settimana, da fine novembre, Umberto.
Sempre a casa mia. Avido. Goloso. Mai sazio. Morbido ma duro. Dolce ma sensuale. Silenzioso nel letto e di poche parole fuori, davanti a un caffè la mattina, a un amaro, di notte.
Bello, uomo di muscolo rotondo, spalle dritte solide piene, come piace a me.
Ma poi, che cosa è successo, ancora non l'ho capito.
Da qualche giorno si è messo in testa che dobbiamo uscire insieme.
Mi invita a cena. Al cinema. A teatro.
Io non ci voglio andare.
Non voglio mani da stringere, vita di coppia da gestire, un fidanzato da sfoggiare. Convenevoli nel foyer prima dello spettacolo.
Volevo e voglio un animale. Uno che non mi parli, che non mi proponga i triti rituali delle coppie moderne. Uno che mi spogli dei miei vestiti e di me.
Che mi ricacci in gola la facoltà di parlare ridandomi solo i mugolii e i gemiti dell'età della pietra, di una donna delle caverne, trascinata per i capelli, avida fra le cosce, incapace anche solo di pensare il concetto di piacere.
Pura carne.


No, Umberto. Non uscirò al cinema a cena a teatro a ballare con te.
Niente cenette con gli amici, passeggiate in montagna, domeniche al sole.
E allora, eccomi qui con un vestito castigato verde mare e la panciera contro assalti oramai troppo dolci, quasi romantici, al forte delle mie delizie.
Lo guardo di scorcio, oltre il calice di vino bianco frizzante, che accarezzo, ormai unico languore, opponendogli una scollatura castigata, unghie senza smalto, calze grosse e scure.
Ordino la pizza. Con l'aglio fresco. Umberto non dice niente.
Questa cena è l'unica concessione. Il capolinea. Il terminal della nostra pelle.

Rinuncio alle sue cosce ai baci che mi facevano dimenticare il mio nome alle sue mani grosse dentro e fuori di me.
Finita la pizza e il caffè rituale mi alzo. “Ciao Umberto”, gli dico. Sono venuta con la mia auto, e così riparto.

Fuori dalla trattoria l'aria di collina mi toglie il torpore del forno a legna.
Sento la panciera stretta, non vedo l'ora di togliermela, infilarmi sotto la doccia e sotto le coperte.

Lunedì alle 10 sul corridoio ho incontrato Stefano, con Andrea. È qui da molto, ma quasi non ci conosciamo, perché sta a informatica, al 6° piano. Abbiamo parlato della pasqua alle porte e dell'arrivo della primavera, della Juve e delle vacanze estive. Andrea ama viaggiare. Io pensavo di andare in Grecia. Stefano sulle Ande.
Ha gli occhi grigi, Andrea. Grandi e profondi. Riccioli sulle tempie e qualche rughetta sotto gli occhi. Dal collo della camicia blu uscivano peletti ricci e l'osso dello sterno. Così sexy.
Quando mi sono piegata sulla borsa per cercare il portafoglio e prendere le monetine per la macchinetta del caffè i suoi occhi - così grigi - seguivano l'orlo della mia camicetta; fissi nel punto esatto dove le stoffe si incontrano e si separano. Alpinisti in cordata sulla piega del mio seno.
Ho rovistato lentamente, nella borsetta, volendo che mi guardasse, lasciando che mi godesse.













Poi mi sono girata; infilando le monetine nella macchinetta del caffè, davanti a Andrea, l'ho sfiorato, lenta e casuale. Ho barcollato su un tacco, mi sono piegata per prendere il bicchiere e indietreggiando mi sono appoggiata con il culo al suo fianco.
Mentre lo Fissavo da sopra il bicchiere, ho slacciato un bottone della camicetta e decantato la mia nuova fotocopiatrice.

“Pensavo di provare la tua fotocopiatrice” - mi ha scritto Andrea alle 4 e mezza.
“Vieni pure”
“E se non la so usare, mi aiuti?”
“Certo”, gli ho risposto io
“Farti trovare senza mutandine mi aiutarebbe”
“Ti aspetto a gambe aperte” gli ho risposto.
Sono le 5 meno 5. Il corridoio tace. Vado a rinfrescarmi, ho due minuti per togliermi le mutandine.

  (tratto da una storia vera)
© Madame Greta Urbetzkj Your Web-Mistress 2009-2011
all rights reserved



Nessun commento:

Posta un commento

Sospiri