Greta

giovedì 23 giugno 2011

Il sonoro di un incontro al buio

Con un certo onore ospitiamo un racconto erotico comico di Gustavo Bidé

A me un uomo quest’effetto non me l’aveva fatto mai. Lo sento per telefono e mi piglia un groppo. Mi si blocca lo stomaco. Mi sazio delle sue parole, dei suoi silenzi. Sarà che si fa chiamare principe azzurro. Magari chiamasse più spesso. Dimagrirei. Invece i pomeriggi ci perdo, ad aspettare uno squillo. Mi metto davanti alla tv col telefono accanto. Film e popcorn. Alla fine mi ritrovo col sacchetto vuoto, le briciole sulle tette e le unghie ai minimi termini. Anche quando fanno il tg. Perché la suspense sta tutta lì, sul display del cellulare, mica in tv. Lo controllo ogni cinque minuti, il cellulare. Non sia mai sia scarico, senza tacche, rotto. Quando vado in frigo a prendermi del gelato dietetico torno di fretta, il frigo con la sua luce potrebbe aver coperto quella flebile, del monitor, che magari si è illuminato per un messaggio, un segno di vita, un’onda elettronica qualsiasi.


Perciò dal frigo torno colle provviste: per stasera il cellulare non voglio abbandonarlo più. Potrei trascinarmelo dietro, vero, ma in tasca ho già i wurstel, e poi in cucina a volte non prende. E che figura ci faccio se quando chiama mi sente a scatti?

Me la devo ricordare, questa cosa, che in cucina non prende. Gliel’ho detto ieri, quando ha chiamato, che stavo in bagno. Mica glielo potevo dire, che stavo sul cesso. E allora mi sono inventata ‘sta storia della cucina senza mobili, che ha l’eco, che è per via del trasloco.
La colpa è sua. Se si fa attendere è logico che una dopo una serata ad attenderlo in qualche modo digerisce. E chiamarmi proprio in quei momenti non è da galantuomo, caro. Ma te la perdono. Basta che te la bevi, la frottola che le scariche che sentivi erano per via della cucina sgombra. Ottima scusa, questa del trasloco. Così una di queste sera mi porterà a cena, logico. Non so perché non c’ha già pensato. Proprio tutto, gli devi spiegare a questi uomini.

Però intanto i cannelloni mi sono rimasti sullo stomaco. E i popcorn fanno su e giù. Ho mandato giù un paio di lattine di coca, vediamo se mi passa.

Aspetta, cos’è questo squillo? Pronto? Oh, ciao, che piacere. No, figurati, che disturbo. Come? Ah, sì, certo, la cucina. Sei gentile. Ma davvero ti sei preoccupato? Figurati, anche senza fornelli sopravvivo. Sai un frutto, un cracker ogni tanto, tanto per non svenire. Ah, grazie! Davvero dici che poi dimagrisco troppo? Che carino, che sei. Come? Una sorpresa? Da me? Ma non ho niente da offrirti, magari usciamo no? Ah, Tra venti minuti? Qui da me? Già ordinato? Con la pizza nel cartone? Margherita, sì certo, va bene.

Guardo la mia trippa come una bomba a orologeria. Per telefono lo stomaco me lo blocca. Ma se mi emoziona, cosa accadrà? Con Filippo mettevo la musica a tutto volume, con Gino lo facevamo al bagno dello stadio, da Guido il marinaio chiesi di essere posseduta sul ponte del piroscafo, mentre s’allontanava dal porto e la ciminiera fischiava, Mimmo lo avevo scelto perché era sordo e Sandro, bei tempi, mi portava nel fienile, tra le vacche. Poi di solito mi trattengo, chiaro. Ma certo dopo, non è come fumare una sigaretta.

E adesso? Doccia, trucco e minigonna. Anzi, no! La cucina! c’è da sgombrarla!
Agata si schiaccia contro la credenza, la spinge con la coscia, la pancia, la spalla, lo zigomo. Si muove. Striscia e cigola ma si muove. Spinge troppo in basso, il mobile s’inclina, lei ci infila sotto una ciabatta e adesso il mobile recalcitra che neanche un somaro. Però a spingerlo un po’ da un lato un po’ dall’altro in effetti va meglio. Anche l’altra ciabatta si leva, Agata, e senza tacchi tutti i muscoli vanno che è un piacere. La credenza varca come una nave l’istmo della cucina e fa il suo ingresso in corridoio. Che poi è un metro quadro sgombro che conduce subito in camera. Agata intruppa la maniglia della porta e sente il rumore di uno strappo. È la gonna. Quella bella, quella che voleva mettere. Pazienza, intanto la credenza è sistemata. Ora proviamo col frigo. Agata riparte da capo, che ormai si sente una del mestiere. Ciabatta di sotto e tecnica dello zigzag. Le provviste dentro si miscelano ma a quello ci si penserà dopo. Adesso c’è il principe azzurro che arriva su un cavallo travestito da pizza express. Agata s’infila tra frigo e muro. La parte strappata della gonna le fa sentire il fresco delle piastrelle. Pure colla fronte lo spinge, questo bestione. Alla fine fa perno su uno spigolo e come per magia se lo ritrova già davanti alla porta, quasi fuori dalla cucina. Forza bruta, ci vuole, adesso. Ci si appoggia con la schiena. Fa perno coi piedi. Li punta sul pavimento e spinge. O meglio si appoggia. Il peso aiuta, a quanto pare: il freezer va. Dietro si porta pure la presa, però, e tutta la casa cade nelle tenebre. Cosa resta: il tavolo, le sedie, e un paio di scolapasta. Praticamente è fatta: li impila nel bagno, nella cabina della doccia: chi vuoi che vada a controllare.

Agata si asciuga il sudore. Le cola dappertutto. Nella penombra uno specchio la mostra disfatta, col trucco che cola e l’asma che monta. I capelli come mangrovie sul collo. Prende fiato.
Bussano. Fa per accendere, niente. Guarda nello spioncino. È lui. Ma proprio lui doveva essere? Vabbene, apro.
Saluta. Dice ma che fai al buio.
Risponde ciao. È il trasloco, non te l’ho detto? Ho fatto staccare la corrente.
Ma così non si vede nulla, osserva cieco, geniale.
Meglio, pensa Agata mentre si confeziona una frangetta con una forchetta che si ritrovo in tasca. Non vuoi entrare, gli dice.
Dove, le chiede.
In casa, gli risponde.
Non ti vedo ma hai un buon odore, aggiunge, maliarda. si avvicina: è la pizza? Ai cavoli?
No, sono io. Vengo ora da lavoro e la doccia questa settimana volevo farla solo con te.
Come corri, risponde lei brancolando. E poi è sabato, pensa. Pensa anche che ora lui la segue e tutta la mesata, le toccherà respirare, altro che settimana. Pensa pure mi grugnisce sul collo, mi sussurra troia.
Mi sbava sulla schiena collo. Ma che fai?
Mi maneggia. Dice che ha le mani ancora del grasso dell’officina. Non vedo nulla ma ci credo. Respiro bitume e sudore. In bagno, dice che vuole farlo in bagno. Aggiunge che sono un porca. Si sarà sparsa la voce.

Però è lui a grugnire. Mi ciuccia l’alluce. Provo a dirgli che è un’ora che vado scalza, che non è il caso, che magari prima me li lavo. Dice che è meglio così, che sennò non ci prova gusto. Anzi dice che nel buio mi immagina sudata, sporca, sfatta. Tanta immaginazione e basterebbe riattaccare la luce.
Mi chiede dov’è la nutella, il sugo, la maionese. Proprio qui, ho sempre del ketchup nel bagno, lo metto sul tavolo, dentro la cabina della doccia. Rutta fortissimo. È un segno d’approvazione. L’ho visto in un documentario. Appena rincasa la farà anche lui, questa di apparecchiare in bagno, sono sicura. Mi piaci perché sei lurida, mi urla. Bel fisico, espressione del volto a parte. Pare Tarzan dopo aver spogliato cita. Gli cola dal naso. Vedi ad andare nudo per la giungla. Si sganascia dagli spasmi. Lecca, morde, addenta. Scrufola. Mi gira, mi capovolge, suda come un caprone, mi lubrifica come un tacchino, mi gronda addosso. Un lembo di sammarzano gli pende dai baffi. Io sono farcita di cavoli e mozzarella. Si nutre tra le mie pieghe. Se le lecca tutte facciamo notte. Dice che adesso mi riempie, che è questione di attimi. Mi annusa dove non è il caso, inala a pieni polmoni. Mastica peli. Mi impasta tette e chiappe. Chiudo gli occhi anche se è buio. Ma te guarda a volte le chat che sorprese. Io ci giuro che almeno le mutande se le cambia, però un principe azzurro. E intanto questo continua. Dice se mi piace farlo col mastice. Rispondo in tre no, per favore. Smettere, devo farlo smettere. E poi cos’avrà da rantolare dalle parti del mio basso ventre. No, mi spiace, il lardo l’ho finito. È che sono single. Dice che fa lo stesso, che sa lui come fare. Mi sormonta, mi sbatte, mi succhia. Poi lo stesso, viceversa. Mi attraversa, scivola, mi stappa. Sono vischiosa, sono unta dappertutto. È passato ovunque. Sputa, mastica, rantola. Poi ripassa, come un secchione. Io in apnea. Ho il suo stesso odore. Mi fa chinare. Per respirare un po’ d’aria pura infilo la testa nella lavatrice. Lui sempre dietro, come un pistone, il meccanico. Dai e dai, a un certo punto mi si strappa il vestito. Pazienza, è buio e poi s’era strappato già da prima. Si ferma per un attimo. Magari riesco a raffreddarlo, a smontarlo. Mi chiede cos’è successo. Una scoreggia, rispondo, non hai sentito?
Come, scusa?
Sì, sì, proprio uno scureggione, bello grosso! mento, a testa alta, esagero, mi vanto.
Si placa. È un attimo. Sì, sì, sì, ancora, ti prego, come godo.
Uffa, peggio di prima.



Gustavo Bidé &


© Madame Greta Urbetzkj Your Web-Mistress 2009-2011
all rights reserved

Nessun commento:

Posta un commento

Sospiri