Dimentico di averla
questa pelle
Spenta senza le tue mani
Vergognosa,
smetterà l'ardire di sognarti
solo stinta e vecchia
http://www.youtube.com/watch?v=Y_2y9CmC_gY
giovedì 19 aprile 2012
venerdì 29 luglio 2011
Le marachelle
E' verde come vetro levigato dal mare, il vestito che indosso stasera per cenare con Umberto. Ho messo la panciera, perché le scorribande nel frigo degli ultimi giorni mi hanno gonfiata un po'. E comunque, pensando di uscire per scaricarlo, non vale la pena essere troppo sexy.
Come dice quel mio amico – magari per rendergli la notizia un sollievo, sulla pizza mi faccio mettere un bel po' di aglio fresco.
Ricordo mentre tiro su la cerniera sul fianco e mi metto un fiocco nei capelli, come aveva spezzato la noja delle prime giornate buje di novembre – il sole dietro le montagne, l'umidità nelle dita sulla tastiera e, all'improvviso, Umberto in ufficio. Per le fotocopie.
Stampava girava le pagine fotocopiava raccoglieva i fogli. Stampava, girava pagine, raccoglieva fogli. Avanti così, che la sua si era rotta e la mia era nuova. Per giorni. Per ore e ore in diversi giorni. All'inizio non ci facevo molto caso. Stavo appesa alla cornetta, su una segreteria telefonica ministeriale “i nostri uffici sono aperti dal lunedì al venerdì dalle ore 8,30 alle ore 12,30”, quando ho iniziato a passeggiare con gli occhi sulla schiena di Umberto - risalendo spalle – dritte – affusolate – larghe – Lui stampava, raccoglieva i fogli, girava le pagine. Man mano che lo osservavo la voce nella cornetta si scioglieva in parole spappolate come albicocche troppo mature.
Percorrevo la sua schiena, infilandomi in ogni righina della sua camicia bianca e azzurra. Nelle fessure fra asole e bottoni, fra cintura e pantaloni.
Finita la telefonata, volevo di più.
Come ogni brava segretaria, giovedì andai in ufficio. Senza mutande.
E mentre Umberto girava e rigirava le sue pagine, gli passai accanto. Per caso la cartellina di pratiche e protocolli che avevo in mano mi sfuggì e io mi piegai vicino a lui per raccogliere le carte.
Non dissi niente. Raccoglievo i fogli sparsi senza fretta - certa che mi stesse guardando sotto la gonna.
Il giorno dopo, nel mio ufficio a fotocopiare, Umberto mi guardava.
Io facevo finta di niente, mi tenevo indaffarata come se la priorità della giornata non fosse indurlo a rompere la scollatura bassa che avevo indosso.
Lo teneva stretto alle mie voglie, oltre la mia indifferenza apparente.
Scrivendo mi passavo una mano lenta sul collo, mi attorcigliavo un riccio sulle spalle, mi lisciavo la pelle sopra il seno, spostando l'orlo della mia maglia sempre un po' più in giù. Mostrando ancora un po' di pelle. Sempre di più. Fino a rivelare l'aureola di un capezzolo, vivace mentre timbravo protocolli e li archiviavo in cartelline colorate. Bagnata come non mi succedeva da un pezzo, avevo solo voglia di scopare.
Prima di timbrare il cartellino andai in bagno a masturbarmi. Venni subito. Mi sciacquai le mani e andai a prendere l'autobus.
“Tu mi turbi” - arrivò il messaggio di Umberto sul cellulare mentre guardavo Santoro sul divano ma più del dibattito pregustavo carezze solitarie sotto le lenzuola tiepide.
“Anche tu” - risposi subito.
“Dove sei?”
“A casa”
“Posso venire?”
Gli mandai l'indirizzo, sfilato il pigiama misi una sottoveste nera, con sotto niente, stivali coi tacchi e giacca di pelle. Gli andavo incontro all'inizio della strada.
Sentivo sul marciapiede la fredda aria della notte di novembre soffiarmi sotto la sottoveste ghiacciarmi le ginocchia e le cosce, stuzzicare il pelo sull'inguine – Caldo, solo il pensiero di una pelle di uomo presto addosso.
Mezza nuda sul marciapiede dove ogni mattina salutavo massaje compite col carrellino della spesa giravo su me stessa con piccoli passetti, tacchettando sul porfido, nella luce di un lampione che mi faceva sentire sporca e intrigante.
Non vedevo l'ora che arrivasse.
“Seguimi” gli dissi precedendolo ancheggiando nei pochi metri che portavano al mio portone.
Una volta dentro il portone di legno mi afferrò il sedere, incominciò a palparmi dappertutto, mi sollevò la sottoveste, spostandomi a strattoni la giacca dalle spalle, tirandomi fuori dal pizzo nero i seni e i capezzoli infreddoliti - me li succhiava scaldava stringeva, tirandomeli si portava via il mio respiro e il ricordo del mondo – voluttuosa e ansimante mi annodava i capelli fra le mani tirando quel tanto da farmi sentire preda che voleva solo essere presa.
Una mano fra le cosce calcando le dita fra le mie grandi labbra – così bagnate - mi sbatté contro il muro vicino all'ascensore mentre mi sforzavo di ricordarmi di non urlare per non svegliare i vicini, per non farmi sentire, imponendomi di ricordarmichenonpotevochenon dovevoperché io abitavo lì e dovevocontinuareaessereunarispettabilesignora con laurea e lavoro statale. Ansimando interrompevo i pensieri sbattendo la testa sulla parete fredda mentre le mani grosse si spingevano sempre più dentro di me, la sua patta dei pantaloni si apriva e finalmente il suo cazzo mi prendeva dentro.
Mi sbatté lì, contro il muro a fianco dell'ascensore, sul pianerottolo all'ingresso, dove non sapevo neanche se ci fossero le telecamere – e poi coll'ascensore salimmo al terzo piano, di corsa nel mio appartamento e senza cerimonie senza parole senza vestiti rotolammo sul divano sul tappeto sul letto contro il frigo la lavastoviglie il comò della zia.
Mi ha fatto godere – dozzine di volte – una, due, tre sere alla settimana, da fine novembre, Umberto.
Sempre a casa mia. Avido. Goloso. Mai sazio. Morbido ma duro. Dolce ma sensuale. Silenzioso nel letto e di poche parole fuori, davanti a un caffè la mattina, a un amaro, di notte.
Bello, uomo di muscolo rotondo, spalle dritte solide piene, come piace a me.
Ma poi, che cosa è successo, ancora non l'ho capito.
Da qualche giorno si è messo in testa che dobbiamo uscire insieme.
Mi invita a cena. Al cinema. A teatro.
Io non ci voglio andare.
Non voglio mani da stringere, vita di coppia da gestire, un fidanzato da sfoggiare. Convenevoli nel foyer prima dello spettacolo.
Volevo e voglio un animale. Uno che non mi parli, che non mi proponga i triti rituali delle coppie moderne. Uno che mi spogli dei miei vestiti e di me.
Che mi ricacci in gola la facoltà di parlare ridandomi solo i mugolii e i gemiti dell'età della pietra, di una donna delle caverne, trascinata per i capelli, avida fra le cosce, incapace anche solo di pensare il concetto di piacere.
Pura carne.
No, Umberto. Non uscirò al cinema a cena a teatro a ballare con te.
Niente cenette con gli amici, passeggiate in montagna, domeniche al sole.
E allora, eccomi qui con un vestito castigato verde mare e la panciera contro assalti oramai troppo dolci, quasi romantici, al forte delle mie delizie.
Lo guardo di scorcio, oltre il calice di vino bianco frizzante, che accarezzo, ormai unico languore, opponendogli una scollatura castigata, unghie senza smalto, calze grosse e scure.
Ordino la pizza. Con l'aglio fresco. Umberto non dice niente.
Questa cena è l'unica concessione. Il capolinea. Il terminal della nostra pelle.
Rinuncio alle sue cosce ai baci che mi facevano dimenticare il mio nome alle sue mani grosse dentro e fuori di me.
Finita la pizza e il caffè rituale mi alzo. “Ciao Umberto”, gli dico. Sono venuta con la mia auto, e così riparto.
Fuori dalla trattoria l'aria di collina mi toglie il torpore del forno a legna.
Sento la panciera stretta, non vedo l'ora di togliermela, infilarmi sotto la doccia e sotto le coperte.
Lunedì alle 10 sul corridoio ho incontrato Stefano, con Andrea. È qui da molto, ma quasi non ci conosciamo, perché sta a informatica, al 6° piano. Abbiamo parlato della pasqua alle porte e dell'arrivo della primavera, della Juve e delle vacanze estive. Andrea ama viaggiare. Io pensavo di andare in Grecia. Stefano sulle Ande.
Ha gli occhi grigi, Andrea. Grandi e profondi. Riccioli sulle tempie e qualche rughetta sotto gli occhi. Dal collo della camicia blu uscivano peletti ricci e l'osso dello sterno. Così sexy.
Quando mi sono piegata sulla borsa per cercare il portafoglio e prendere le monetine per la macchinetta del caffè i suoi occhi - così grigi - seguivano l'orlo della mia camicetta; fissi nel punto esatto dove le stoffe si incontrano e si separano. Alpinisti in cordata sulla piega del mio seno.
Ho rovistato lentamente, nella borsetta, volendo che mi guardasse, lasciando che mi godesse.
Come dice quel mio amico – magari per rendergli la notizia un sollievo, sulla pizza mi faccio mettere un bel po' di aglio fresco.
Ricordo mentre tiro su la cerniera sul fianco e mi metto un fiocco nei capelli, come aveva spezzato la noja delle prime giornate buje di novembre – il sole dietro le montagne, l'umidità nelle dita sulla tastiera e, all'improvviso, Umberto in ufficio. Per le fotocopie.
Stampava girava le pagine fotocopiava raccoglieva i fogli. Stampava, girava pagine, raccoglieva fogli. Avanti così, che la sua si era rotta e la mia era nuova. Per giorni. Per ore e ore in diversi giorni. All'inizio non ci facevo molto caso. Stavo appesa alla cornetta, su una segreteria telefonica ministeriale “i nostri uffici sono aperti dal lunedì al venerdì dalle ore 8,30 alle ore 12,30”, quando ho iniziato a passeggiare con gli occhi sulla schiena di Umberto - risalendo spalle – dritte – affusolate – larghe – Lui stampava, raccoglieva i fogli, girava le pagine. Man mano che lo osservavo la voce nella cornetta si scioglieva in parole spappolate come albicocche troppo mature.
Percorrevo la sua schiena, infilandomi in ogni righina della sua camicia bianca e azzurra. Nelle fessure fra asole e bottoni, fra cintura e pantaloni.
Finita la telefonata, volevo di più.
Come ogni brava segretaria, giovedì andai in ufficio. Senza mutande.
E mentre Umberto girava e rigirava le sue pagine, gli passai accanto. Per caso la cartellina di pratiche e protocolli che avevo in mano mi sfuggì e io mi piegai vicino a lui per raccogliere le carte.
Non dissi niente. Raccoglievo i fogli sparsi senza fretta - certa che mi stesse guardando sotto la gonna.
Il giorno dopo, nel mio ufficio a fotocopiare, Umberto mi guardava.
Io facevo finta di niente, mi tenevo indaffarata come se la priorità della giornata non fosse indurlo a rompere la scollatura bassa che avevo indosso.
Lo teneva stretto alle mie voglie, oltre la mia indifferenza apparente.
Scrivendo mi passavo una mano lenta sul collo, mi attorcigliavo un riccio sulle spalle, mi lisciavo la pelle sopra il seno, spostando l'orlo della mia maglia sempre un po' più in giù. Mostrando ancora un po' di pelle. Sempre di più. Fino a rivelare l'aureola di un capezzolo, vivace mentre timbravo protocolli e li archiviavo in cartelline colorate. Bagnata come non mi succedeva da un pezzo, avevo solo voglia di scopare.
Prima di timbrare il cartellino andai in bagno a masturbarmi. Venni subito. Mi sciacquai le mani e andai a prendere l'autobus.
“Tu mi turbi” - arrivò il messaggio di Umberto sul cellulare mentre guardavo Santoro sul divano ma più del dibattito pregustavo carezze solitarie sotto le lenzuola tiepide.
“Anche tu” - risposi subito.
“Dove sei?”
“A casa”
“Posso venire?”
Gli mandai l'indirizzo, sfilato il pigiama misi una sottoveste nera, con sotto niente, stivali coi tacchi e giacca di pelle. Gli andavo incontro all'inizio della strada.
Sentivo sul marciapiede la fredda aria della notte di novembre soffiarmi sotto la sottoveste ghiacciarmi le ginocchia e le cosce, stuzzicare il pelo sull'inguine – Caldo, solo il pensiero di una pelle di uomo presto addosso.
Mezza nuda sul marciapiede dove ogni mattina salutavo massaje compite col carrellino della spesa giravo su me stessa con piccoli passetti, tacchettando sul porfido, nella luce di un lampione che mi faceva sentire sporca e intrigante.
Non vedevo l'ora che arrivasse.
“Seguimi” gli dissi precedendolo ancheggiando nei pochi metri che portavano al mio portone.
Una volta dentro il portone di legno mi afferrò il sedere, incominciò a palparmi dappertutto, mi sollevò la sottoveste, spostandomi a strattoni la giacca dalle spalle, tirandomi fuori dal pizzo nero i seni e i capezzoli infreddoliti - me li succhiava scaldava stringeva, tirandomeli si portava via il mio respiro e il ricordo del mondo – voluttuosa e ansimante mi annodava i capelli fra le mani tirando quel tanto da farmi sentire preda che voleva solo essere presa.
Una mano fra le cosce calcando le dita fra le mie grandi labbra – così bagnate - mi sbatté contro il muro vicino all'ascensore mentre mi sforzavo di ricordarmi di non urlare per non svegliare i vicini, per non farmi sentire, imponendomi di ricordarmichenonpotevochenon dovevoperché io abitavo lì e dovevocontinuareaessereunarispettabilesignora con laurea e lavoro statale. Ansimando interrompevo i pensieri sbattendo la testa sulla parete fredda mentre le mani grosse si spingevano sempre più dentro di me, la sua patta dei pantaloni si apriva e finalmente il suo cazzo mi prendeva dentro.
Mi sbatté lì, contro il muro a fianco dell'ascensore, sul pianerottolo all'ingresso, dove non sapevo neanche se ci fossero le telecamere – e poi coll'ascensore salimmo al terzo piano, di corsa nel mio appartamento e senza cerimonie senza parole senza vestiti rotolammo sul divano sul tappeto sul letto contro il frigo la lavastoviglie il comò della zia.
Mi ha fatto godere – dozzine di volte – una, due, tre sere alla settimana, da fine novembre, Umberto.
Sempre a casa mia. Avido. Goloso. Mai sazio. Morbido ma duro. Dolce ma sensuale. Silenzioso nel letto e di poche parole fuori, davanti a un caffè la mattina, a un amaro, di notte.
Bello, uomo di muscolo rotondo, spalle dritte solide piene, come piace a me.
Ma poi, che cosa è successo, ancora non l'ho capito.
Da qualche giorno si è messo in testa che dobbiamo uscire insieme.
Mi invita a cena. Al cinema. A teatro.
Io non ci voglio andare.
Non voglio mani da stringere, vita di coppia da gestire, un fidanzato da sfoggiare. Convenevoli nel foyer prima dello spettacolo.
Volevo e voglio un animale. Uno che non mi parli, che non mi proponga i triti rituali delle coppie moderne. Uno che mi spogli dei miei vestiti e di me.
Che mi ricacci in gola la facoltà di parlare ridandomi solo i mugolii e i gemiti dell'età della pietra, di una donna delle caverne, trascinata per i capelli, avida fra le cosce, incapace anche solo di pensare il concetto di piacere.
Pura carne.
No, Umberto. Non uscirò al cinema a cena a teatro a ballare con te.
Niente cenette con gli amici, passeggiate in montagna, domeniche al sole.
E allora, eccomi qui con un vestito castigato verde mare e la panciera contro assalti oramai troppo dolci, quasi romantici, al forte delle mie delizie.
Lo guardo di scorcio, oltre il calice di vino bianco frizzante, che accarezzo, ormai unico languore, opponendogli una scollatura castigata, unghie senza smalto, calze grosse e scure.
Ordino la pizza. Con l'aglio fresco. Umberto non dice niente.
Questa cena è l'unica concessione. Il capolinea. Il terminal della nostra pelle.
Rinuncio alle sue cosce ai baci che mi facevano dimenticare il mio nome alle sue mani grosse dentro e fuori di me.
Finita la pizza e il caffè rituale mi alzo. “Ciao Umberto”, gli dico. Sono venuta con la mia auto, e così riparto.
Fuori dalla trattoria l'aria di collina mi toglie il torpore del forno a legna.
Sento la panciera stretta, non vedo l'ora di togliermela, infilarmi sotto la doccia e sotto le coperte.
Lunedì alle 10 sul corridoio ho incontrato Stefano, con Andrea. È qui da molto, ma quasi non ci conosciamo, perché sta a informatica, al 6° piano. Abbiamo parlato della pasqua alle porte e dell'arrivo della primavera, della Juve e delle vacanze estive. Andrea ama viaggiare. Io pensavo di andare in Grecia. Stefano sulle Ande.
Ha gli occhi grigi, Andrea. Grandi e profondi. Riccioli sulle tempie e qualche rughetta sotto gli occhi. Dal collo della camicia blu uscivano peletti ricci e l'osso dello sterno. Così sexy.
Quando mi sono piegata sulla borsa per cercare il portafoglio e prendere le monetine per la macchinetta del caffè i suoi occhi - così grigi - seguivano l'orlo della mia camicetta; fissi nel punto esatto dove le stoffe si incontrano e si separano. Alpinisti in cordata sulla piega del mio seno.
Ho rovistato lentamente, nella borsetta, volendo che mi guardasse, lasciando che mi godesse.
Poi mi sono girata; infilando le monetine nella macchinetta del caffè, davanti a Andrea, l'ho sfiorato, lenta e casuale. Ho barcollato su un tacco, mi sono piegata per prendere il bicchiere e indietreggiando mi sono appoggiata con il culo al suo fianco.
Mentre lo Fissavo da sopra il bicchiere, ho slacciato un bottone della camicetta e decantato la mia nuova fotocopiatrice.
“Pensavo di provare la tua fotocopiatrice” - mi ha scritto Andrea alle 4 e mezza.
“Vieni pure”
“E se non la so usare, mi aiuti?”
“Certo”, gli ho risposto io
“Farti trovare senza mutandine mi aiutarebbe”
“Ti aspetto a gambe aperte” gli ho risposto.
Sono le 5 meno 5. Il corridoio tace. Vado a rinfrescarmi, ho due minuti per togliermi le mutandine.
(tratto da una storia vera)
© Madame Greta Urbetzkj Your Web-Mistress 2009-2011
all rights reserved
giovedì 23 giugno 2011
Il sonoro di un incontro al buio
Con un certo onore ospitiamo un racconto erotico comico di Gustavo Bidé
A me un uomo quest’effetto non me l’aveva fatto mai. Lo sento per telefono e mi piglia un groppo. Mi si blocca lo stomaco. Mi sazio delle sue parole, dei suoi silenzi. Sarà che si fa chiamare principe azzurro. Magari chiamasse più spesso. Dimagrirei. Invece i pomeriggi ci perdo, ad aspettare uno squillo. Mi metto davanti alla tv col telefono accanto. Film e popcorn. Alla fine mi ritrovo col sacchetto vuoto, le briciole sulle tette e le unghie ai minimi termini. Anche quando fanno il tg. Perché la suspense sta tutta lì, sul display del cellulare, mica in tv. Lo controllo ogni cinque minuti, il cellulare. Non sia mai sia scarico, senza tacche, rotto. Quando vado in frigo a prendermi del gelato dietetico torno di fretta, il frigo con la sua luce potrebbe aver coperto quella flebile, del monitor, che magari si è illuminato per un messaggio, un segno di vita, un’onda elettronica qualsiasi.
Perciò dal frigo torno colle provviste: per stasera il cellulare non voglio abbandonarlo più. Potrei trascinarmelo dietro, vero, ma in tasca ho già i wurstel, e poi in cucina a volte non prende. E che figura ci faccio se quando chiama mi sente a scatti?
Me la devo ricordare, questa cosa, che in cucina non prende. Gliel’ho detto ieri, quando ha chiamato, che stavo in bagno. Mica glielo potevo dire, che stavo sul cesso. E allora mi sono inventata ‘sta storia della cucina senza mobili, che ha l’eco, che è per via del trasloco.
La colpa è sua. Se si fa attendere è logico che una dopo una serata ad attenderlo in qualche modo digerisce. E chiamarmi proprio in quei momenti non è da galantuomo, caro. Ma te la perdono. Basta che te la bevi, la frottola che le scariche che sentivi erano per via della cucina sgombra. Ottima scusa, questa del trasloco. Così una di queste sera mi porterà a cena, logico. Non so perché non c’ha già pensato. Proprio tutto, gli devi spiegare a questi uomini.
Però intanto i cannelloni mi sono rimasti sullo stomaco. E i popcorn fanno su e giù. Ho mandato giù un paio di lattine di coca, vediamo se mi passa.
Aspetta, cos’è questo squillo? Pronto? Oh, ciao, che piacere. No, figurati, che disturbo. Come? Ah, sì, certo, la cucina. Sei gentile. Ma davvero ti sei preoccupato? Figurati, anche senza fornelli sopravvivo. Sai un frutto, un cracker ogni tanto, tanto per non svenire. Ah, grazie! Davvero dici che poi dimagrisco troppo? Che carino, che sei. Come? Una sorpresa? Da me? Ma non ho niente da offrirti, magari usciamo no? Ah, Tra venti minuti? Qui da me? Già ordinato? Con la pizza nel cartone? Margherita, sì certo, va bene.
Guardo la mia trippa come una bomba a orologeria. Per telefono lo stomaco me lo blocca. Ma se mi emoziona, cosa accadrà? Con Filippo mettevo la musica a tutto volume, con Gino lo facevamo al bagno dello stadio, da Guido il marinaio chiesi di essere posseduta sul ponte del piroscafo, mentre s’allontanava dal porto e la ciminiera fischiava, Mimmo lo avevo scelto perché era sordo e Sandro, bei tempi, mi portava nel fienile, tra le vacche. Poi di solito mi trattengo, chiaro. Ma certo dopo, non è come fumare una sigaretta.
E adesso? Doccia, trucco e minigonna. Anzi, no! La cucina! c’è da sgombrarla!
Agata si schiaccia contro la credenza, la spinge con la coscia, la pancia, la spalla, lo zigomo. Si muove. Striscia e cigola ma si muove. Spinge troppo in basso, il mobile s’inclina, lei ci infila sotto una ciabatta e adesso il mobile recalcitra che neanche un somaro. Però a spingerlo un po’ da un lato un po’ dall’altro in effetti va meglio. Anche l’altra ciabatta si leva, Agata, e senza tacchi tutti i muscoli vanno che è un piacere. La credenza varca come una nave l’istmo della cucina e fa il suo ingresso in corridoio. Che poi è un metro quadro sgombro che conduce subito in camera. Agata intruppa la maniglia della porta e sente il rumore di uno strappo. È la gonna. Quella bella, quella che voleva mettere. Pazienza, intanto la credenza è sistemata. Ora proviamo col frigo. Agata riparte da capo, che ormai si sente una del mestiere. Ciabatta di sotto e tecnica dello zigzag. Le provviste dentro si miscelano ma a quello ci si penserà dopo. Adesso c’è il principe azzurro che arriva su un cavallo travestito da pizza express. Agata s’infila tra frigo e muro. La parte strappata della gonna le fa sentire il fresco delle piastrelle. Pure colla fronte lo spinge, questo bestione. Alla fine fa perno su uno spigolo e come per magia se lo ritrova già davanti alla porta, quasi fuori dalla cucina. Forza bruta, ci vuole, adesso. Ci si appoggia con la schiena. Fa perno coi piedi. Li punta sul pavimento e spinge. O meglio si appoggia. Il peso aiuta, a quanto pare: il freezer va. Dietro si porta pure la presa, però, e tutta la casa cade nelle tenebre. Cosa resta: il tavolo, le sedie, e un paio di scolapasta. Praticamente è fatta: li impila nel bagno, nella cabina della doccia: chi vuoi che vada a controllare.
Agata si asciuga il sudore. Le cola dappertutto. Nella penombra uno specchio la mostra disfatta, col trucco che cola e l’asma che monta. I capelli come mangrovie sul collo. Prende fiato.
Bussano. Fa per accendere, niente. Guarda nello spioncino. È lui. Ma proprio lui doveva essere? Vabbene, apro.
Saluta. Dice ma che fai al buio.
Risponde ciao. È il trasloco, non te l’ho detto? Ho fatto staccare la corrente.
Ma così non si vede nulla, osserva cieco, geniale.
Meglio, pensa Agata mentre si confeziona una frangetta con una forchetta che si ritrovo in tasca. Non vuoi entrare, gli dice.
Dove, le chiede.
In casa, gli risponde.
Non ti vedo ma hai un buon odore, aggiunge, maliarda. si avvicina: è la pizza? Ai cavoli?
No, sono io. Vengo ora da lavoro e la doccia questa settimana volevo farla solo con te.
Come corri, risponde lei brancolando. E poi è sabato, pensa. Pensa anche che ora lui la segue e tutta la mesata, le toccherà respirare, altro che settimana. Pensa pure mi grugnisce sul collo, mi sussurra troia.
Mi sbava sulla schiena collo. Ma che fai?
Mi maneggia. Dice che ha le mani ancora del grasso dell’officina. Non vedo nulla ma ci credo. Respiro bitume e sudore. In bagno, dice che vuole farlo in bagno. Aggiunge che sono un porca. Si sarà sparsa la voce.
Però è lui a grugnire. Mi ciuccia l’alluce. Provo a dirgli che è un’ora che vado scalza, che non è il caso, che magari prima me li lavo. Dice che è meglio così, che sennò non ci prova gusto. Anzi dice che nel buio mi immagina sudata, sporca, sfatta. Tanta immaginazione e basterebbe riattaccare la luce.
Mi chiede dov’è la nutella, il sugo, la maionese. Proprio qui, ho sempre del ketchup nel bagno, lo metto sul tavolo, dentro la cabina della doccia. Rutta fortissimo. È un segno d’approvazione. L’ho visto in un documentario. Appena rincasa la farà anche lui, questa di apparecchiare in bagno, sono sicura. Mi piaci perché sei lurida, mi urla. Bel fisico, espressione del volto a parte. Pare Tarzan dopo aver spogliato cita. Gli cola dal naso. Vedi ad andare nudo per la giungla. Si sganascia dagli spasmi. Lecca, morde, addenta. Scrufola. Mi gira, mi capovolge, suda come un caprone, mi lubrifica come un tacchino, mi gronda addosso. Un lembo di sammarzano gli pende dai baffi. Io sono farcita di cavoli e mozzarella. Si nutre tra le mie pieghe. Se le lecca tutte facciamo notte. Dice che adesso mi riempie, che è questione di attimi. Mi annusa dove non è il caso, inala a pieni polmoni. Mastica peli. Mi impasta tette e chiappe. Chiudo gli occhi anche se è buio. Ma te guarda a volte le chat che sorprese. Io ci giuro che almeno le mutande se le cambia, però un principe azzurro. E intanto questo continua. Dice se mi piace farlo col mastice. Rispondo in tre no, per favore. Smettere, devo farlo smettere. E poi cos’avrà da rantolare dalle parti del mio basso ventre. No, mi spiace, il lardo l’ho finito. È che sono single. Dice che fa lo stesso, che sa lui come fare. Mi sormonta, mi sbatte, mi succhia. Poi lo stesso, viceversa. Mi attraversa, scivola, mi stappa. Sono vischiosa, sono unta dappertutto. È passato ovunque. Sputa, mastica, rantola. Poi ripassa, come un secchione. Io in apnea. Ho il suo stesso odore. Mi fa chinare. Per respirare un po’ d’aria pura infilo la testa nella lavatrice. Lui sempre dietro, come un pistone, il meccanico. Dai e dai, a un certo punto mi si strappa il vestito. Pazienza, è buio e poi s’era strappato già da prima. Si ferma per un attimo. Magari riesco a raffreddarlo, a smontarlo. Mi chiede cos’è successo. Una scoreggia, rispondo, non hai sentito?
Come, scusa?
Sì, sì, proprio uno scureggione, bello grosso! mento, a testa alta, esagero, mi vanto.
Si placa. È un attimo. Sì, sì, sì, ancora, ti prego, come godo.
Uffa, peggio di prima.
Gustavo Bidé &
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